Colpirne Uno Ritratto di famiglia con brigate rosse, di Mario Di Vito
Un libro appena uscito e che ho già letto due volte.
Gli anni della lotta armata sono il mio tema di studio di elezione, che mi assorbe da quando ero adolescente, ecco che se esce qualcosa di nuovo voglio leggerlo, tanto più in questo caso. Colpirne uno, ritratto di famiglia con brigate rosse si muove su due livelli di racconto: la vicenda di Roberto Peci, dal rapimento al processo proletario alla morte, e la vita del Pubblico Ministero che seguì il primo grado di giudizio. La storia di Roberto Peci è avvenuta per lo più nelle Marche, a San Benedetto il rapimento, a Roma l'omicidio, in Ancona il processo. Sarà infantile, ma questa geografia mi fa sentire più coinvolta, inutile non ammetterlo.
Dopo tanti anni e tanti libri è difficile trovare nuove informazioni o prospettive, ma in questo caso la visione ha un'angolazione, per me, nuova e meno immediata di quello che pensavo.
L'autore, Mario di Vito, è il nipote del PM, Mario Mandrelli, il che mi sembra di per sé un fatto del tutto singolare, perché seppure siamo abituati ad ascoltare le persone care alle vittime dei fatti di sangue, raramente trovano spazio le vicende dei magistrati o degli avvocati o di chi ha svolto una professione vicina a certi avvenimenti, se non nei casi in cui la violenza colpisce direttamente anche loro. Qui poi è passato mezzo secolo che sembrano mille anni, nulla assomiglia ad allora, non i pensieri, il linguaggio, la società, l'impegno, la violenza, il tessuto economico o quello sociale, ho l'impressione che nemmeno i desideri più intimi siano gli stessi. L'esperienza di quella lotta armata è stata dichiarata finita più di trent'anni fa. Eppure spesso mi dico che veniamo da lì e dalle conseguenze di quel periodo, conseguenze articolate, tanto capillari quanto grossolane e comunque ancora molto costose.
Colpirne uno, ritratto di famiglia con brigate rosse unisce vicende nazionali e private raccontate con il medesimo distacco libero dal giudizio e, straordinariamente, anche dall'emotività. Gli anni della colonna marchigiana, nomi, date, fasi processuali, tutto in quella San Benedetto che avevo già conosciuto con I giorni della rotonda di Silvia Ballestra (un altro libro che non mi passa più) e che fa da sfondo al rapimento Peci e alla vita di un magistrato. La pesantezza di quelle settimane, le ricadute sulla sfera personale, le barricate e poi il tempo che passa.
Credo sia questo che mi abbia sempre colpito, la diffusione di un clima dal quale sfuggire non sembrava possibile e che Mario di Vito restituisce pur senza entrare mai in un piano apertamente nazionale.
Dopo questa lettura ho ripreso in mano molti dei miei libri sulle BR, primo tra gli altri Io, l'infame di Patrizio Peci e poi ho iniziato a parlare con l'autore, che non conosco personalmente e che ringrazio per le chiacchiere di questi giorni e per le domande alle quali ha accettato di rispondere:
L: Immagino che per ricostruire questa storia ci sia voluto molto tempo, nelle ultime pagine menzioni di aver studiato diari, giornali, atti processuali, relativi a quel periodo, nel corso di questo lavoro storiografico la tua idea del libro è rimasta sempre la stessa?
M: Ci ho messo anni, è vero. Soprattutto per decidere cosa fare della gran mole di documenti che avevo accumulato. Fino a che non ho finito di scriverlo non avevo esattamente idea di cosa stessi facendo, e ancora adesso ho molti dubbi. Una grossa mano me l'hanno data due persone: Silvia Ballestra, una delle prime persone a leggere la prima bozza e Sofia Torre, parlando con lei ho capito come volevo sciogliere la questione familiare nel racconto più generale. Ecco, alla fine della fiera, è venuto fuori un ibrido dal forte impianto narrativo, o almeno credo. Il fatto di non aver messo note, indice dei nomi, bibliografia e tutto il resto significa in fondo che si tratta di un romanzo. Benché i fatti, le circostanze e i personaggi siano tutti veri, Colpirne uno ha una vocazione narrativa. O almeno credo
L: Nel documentarti hai anche incontrato delle persone, i ragazzi della rotonda, amici di amici, ex brigatisti, loro familiari? Hai trovato voglia di parlare o resistenza o cosa altro? Come sono andati questi incontri?
M: Molti li conosco personalmente, posso anche dire di avere un buon rapporto con loro, e, nel periodo che ho impiegato a scrivere questo libro, ho parlato pressoché con tutti loro, anche se alla fine ho deciso non utilizzare praticamente niente (qualcosa sì, ma non moltissimo) delle cose che mi hanno raccontate. L'idea di fondo, infatti, non era quella di fare “la storia del sequestro Peci”, ma la storia del magistrato che seguì la vicenda e, di conseguenza, un pezzo di storia della mia famiglia. Diciamo che la vicenda è un pezzo di una storia molto più grande, la nostra.
L: Il tuo libro ha un tono molto neutro, non ho mai percepito momenti di emotività dell'autore (tuoi), né giudizi, né partecipazione intima, ma il racconto è comunque pervaso da una certa tensione, quella sociale, quella interiore del PM, ma anche quella interna alle Brigate Rosse, com'è oggi a San Benedetto il ricordo di quell'atmosfera?
M: Questa è una domanda a cui ancora non so rispondere. Personalmente percepisco una grande distanza da quei fatti, sarà pure che io sono nato dopo e non ho ricordi personali, ma solo, per così dire, ricordi in prestito. Per il resto credo che la vicenda di Roberto Peci sia un grande peso emotivo per molti a San Benedetto, c'è un senso di colpa latente che si vede soprattutto nella parzialità dei racconti. Penso, in fondo, che la storia degli anni del terrorismo sia un po' tutta così: un insieme di pezzi che non sempre si incastrano tra di loro ma che, visti da una certa distanza, costituiscono un mosaico. Non saprei dire, comunque, se ho usato un tono neutro: quando scrivo preferisco sempre “asciugare” tutto, mi pare il modo più onesto per raccontare qualcosa.
L: Colpirne uno, ritratto di famiglia con brigate rosse parla anche di palazzi di giustizia, di contatti tra le gestioni centrali e quelle locali, di famiglie e di provincia. Una storia tanto importante e avvenuta in un margine geografico dal quale sono partiti diversi protagonisti della lotta armata, nelle ricerche per il libro hai scoperto un lato inedito della provincia?
M: Per me la provincia, almeno quella di Ascoli dove vivo la maggior parte del tempo, non è molto inedita. E, in generale, ognuno penso abbia una buona concezione del posto in cui vive, che sia il centro o la periferia dell'impero. I palazzi di giustizia li frequento spesso per lavoro, sono un cronista. Per il resto credo che la provincia sia sempre una buona angolazione da cui guardare il mondo: è un po' lo stesso discorso degli anni di piombo, è la distanza spesso che restituisce la chiarezza. In provincia tutto sembra lontano, ma non per questo è meno chiaro. Anzi, probabilmente lo è pure di più, perché qui si vedono sempre prima le conseguenze delle cause. Prima arrivano i problemi, poi, spesso molto tempo dopo, si comincia a discutere di come e perché siano arrivati.
L: Mi sono chiesta chi fosse il protagonista di questo libro, il PM o tuo nonno? Le brigate rosse o la loro parabola? San Benedetto o l'Italia? La morte di Roberto Peci o la vita di suo fratello? La verità giudiziaria o le conseguenze di quegli anni? Nella mia lettura un protagonista non c'è, c'è una storia nota e dimenticata che aveva definito anche altre vite e che ti ringrazio di aver scritto, e posso solo chiederti perché? Perché l'hai raccontata?
In fin dei conti credo che la protagonista sia mia nonna. La base del racconto sono i suoi diari, e il mio sguardo su quei fatti è mediato dal suo. Questa sua abitudine di tenere più o meno da sempre un diario in cui quotidianamente appuntare i fatti, anche minimi, avvenuti durante la giornata è di fatto un racconto a sé. Un periodo ho pensato addirittura di provare a pubblicare questi diari integralmente, magari con qualche nota. Alla fine però ho ritenuto più giusto usarli per costruire il contesto di una storia pubblica. O forse è che questo è l'unico modo che ho trovato per raccontare questa storia. Ci sono anche io dentro e debbo dire che è stato uno sforzo per me raccontare delle parti in prima persona, un po' per abitudine professionale (nella cronaca la prima persona è un peccato capitale), un po' perché mettersi in mezzo è sempre un'operazione delicata, scrivendo si arrivano a pensare cose sorprendenti. È controintuitivo, forse, ma per me funziona così: spesso mi appunto le cose soltanto per schiarirmi le idee. Del resto non amo le spiegazioni ma apprezzo molto i racconti. Perché abbia deciso di raccontare questa storia, infine, non lo so. O forse sì: è l'unica cosa che potevo fare.
Non è un libro estivo (qualsiasi cosa significhi), non è un libro facile da consigliare, è un libro bello, documentato, che lascia immagini definite e che racconta una cosa importante.
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