Il lettore ideale di Racconti edizioni potresti essere tu




Per leggere solo storie brevi, nuove e classiche, per ricordarsi di Kafka, amare i libri bianchi, ascoltare gli oracoli e candidarsi a prototipo di lettore di Racconti edizioni, leggete l'intervista all'ora del tè a Stefano Friani, che nel 2016 ha fondato la casa editrice con Emanuele Giammarco. 

Racconti è una casa editrice giovane giovane e ha subito conquistato i lettori e di certo i blogger, qual è stata la vostra strategia o non strategia per farvi conoscere?
Racconti fa il suo debutto sui social (all’inizio erano solo twitter e facebook, ora si è aggiunto da poco Instagram) il primo marzo del 2016 e da quel momento il nostro provetto social media manager Leonardo Neri ha adottato una voce scanzonata (prima no, prima era baritono) che crediamo sia piuttosto riconoscibile e sentiamo «nostra». L’idea era che si potessero comunicare i libri senza boria o alterigia, ma con un piglio un filo più orizzontale e dialogante. A parte i social bisogna dire che sono stati cruciali l’apporto delle fiere, delle presentazioni in giro per l’Italia e la conoscenza diretta con i lettori in quel vis à vis che può facilmente tramutarsi in un corpo a corpo che è il raccontare e possibilmente vendere i libri, facendoli incontrare a chi non sapeva ancora di volerli magari e a chi invece non vedeva l’ora di rinverdire vecchie conoscenze. Alcuni passaggi sulla carta stampata e non solo poi sono stati altrettanto fondamentali: penso alle interviste su Repubblica, il Foglio, il Giornale,  o all’attenzione riservataci dal Manifesto o Vanity Fair o Internazionale o Il Libraio e alle tante recensioni ottenute dai libri, praticamente ovunque, in una rassegna stampa davvero rilevante per le nostre dimensioni lillipuziane. Un ruolo da non sottovalutare – in questa «strategia comunicativa» molto a posteriori – lo ha giocato il nostro blog Altri animali, un luogo per l’appunto altro rispetto alla casa editrice in cui spesso trovano spazio cose magari afferenti ma non sempre in linea con le idee di chi la casa editrice la abita e la vive, uno spazio il più possibile rizomatico e plurale che ci serve per costruire anzitutto un discorso e poi, magari, una comunità e, già che ci siamo, coinvolgerla nel nostro progetto culturale. Non so se ti ho risposto, ma in buona sostanza credo che a convincere gli operatori di settore e i lettori a darci una credibilità che non sappiamo ancora se meritare o meno sia stata soprattutto l’idea di una casa editrice di soli racconti e l’epica sfigata di un’azione così donchisciottesca da non esserlo affatto. Forse l’idea era talmente buona che nemmeno noi siamo riusciti a sabotarla.

Il logo kafkiano è super riconoscibile, dedicato a uno dei più grandi racconti di sempre e così la grafica vi resi identificabili, siete proprio voi, come siete arrivati a "vestirvi" così?
Tutto nasce da un veto, lo ricordo bene perché l’avevo messo io. Basta animali nei loghi: niente elefantini, pavoni, struzzi, tonni ecc. Poi un bel giorno, io ed Emanuele, che all’epoca era di stanza a Londra, stiamo chattando su facebook riguardo al progetto grafico e lui se ne esce con l’idea di adottare uno scarafaggio come logo. Ritratto immediatamente il veto e aderisco con entusiasmo alla mozione scarafaggio. Da allora, anche grazie alla consulenza della mai troppo ringraziata e lodata Monica Aldi, veniamo a sapere che Franco Matticchio aveva disegnato uno scarafaggio kafkiano che proiettava un uomo come sua ombra o viceversa, ora non ricordo. Entusiasti gli chiediamo di lavorare a un logo, lui si innamora del progetto e pur non avendone mai fatto uno, tira fuori quella bellezza che ora campeggia sulle nostre copertine. Il nostro sfigatissimo scarafaggio sembra quasi rivolgersi al lettore, si agita non riuscendo a rimettersi in piedi, lo fissa negli occhi e gli chiede aiuto. Del resto, non potevamo avere un altro simbolo considerato come vengono visti i racconti da noi e, diciamolo, c’era anche un’identificazione di noi come persone che stavano faticosamente avviando una casa editrice. Ci piaceva scegliere un underdog simile e poi il richiamo a La metamorfosi, il miglior racconto mai scritto, e a Kafka, che con la sua letteratura di minoranza è il nostro nume tutelare, erano troppo invitanti per non essere raccolti. Sul progetto grafico: l’esigenza e la volontà erano di avere l’oggetto assieme al progetto, fare libri belli dentro e fuori. La lettura è un’esperienza anche estetica che coinvolge molti sensi, olfatto tatto vista, e quindi era importante che la carta fosse di qualità, così come la rilegatura e così via. Sulle illustrazioni siamo stati subito d’accordo, volevamo che fossero il più essenziali possibile e che restituissero al contempo la compiutezza e la scarnezza del racconto, per questo abbiamo anche deciso di accludere un bozzetto dell’autore o dell’autrice in bandella. Pochi tratti che servono a tratteggiare un intero universo, questo era il principio. Io ed Emanuele, da buoni illuministi, poi, amiamo i libri bianchi: quelli di Quodlibet e Nottetempo come quelli delle case editrici per cui abbiamo avuto la fortuna di lavorare, Einaudi e Il Saggiatore. Non solo in libreria o alle fiere saltano subito all’occhio – sebbene siano facili a sporcarsi, e croce e delizia di ogni libraio – ma sono libri che ci rappresentano e che non inseguono mode di passaggio, non sono sgargianti e fotogenici come altri che poi finiscono a svernare sulle bancarelle dei remainders. Qualcuno ha detto che erano libri tutto sommato già visti, e può ben darsi. Basta entrare in una libreria in Francia per rendersi conto di come quasi tutti i libri si assomiglino e abbiano una smaccata tendenza al bianco, anche lì. Racconti ambiva a diventare la casa delle short stories e un progetto grafico «classico», che si richiama alla tradizione nobile della nostra editoria, poteva essere accogliente sia per i racconti più tradizionali di Eudora Welty sia per quelli granguignoleschi di Stephen Graham Jones. E poi del resto, come diceva Antoni Gaudí, l’originalità sta nel tornare alle origini.

Ci sono delle case editrici che per voi sono o sono state un esempio da seguire? Qualcuna che vi abbia ispirato?
Esistono inevitabilmente dei modelli aurei che però sono irreplicabili, un po’ per la natura stessa dello pseudomercato in cui ci troviamo a operare e un po’ perché sono case editrici nate in anni di vacche grasse o quantomeno non rachitiche. Per come è conformata l’editoria italiana, le piccole case editrici si concentrano su nicchie, spesso ecologiche, tarandosi su letterature specifiche o aree geografiche. Ci sono quelle che fanno i sudamericani, chi si occupa dei nordeuropei, chi dell’Asia. Noi, da lettori eclettici e un po’ troppo onnivori avevamo bisogno di un progetto – perché le identità di chi lavora in una casa editrice inevitabilmente hanno un peso e rispecchiano la casa editrice stessa – che fosse più una nicchia logica e ci permettesse di spaziare tra generi, stili, esperienze. Il racconto si prestava magnificamente all’uopo e inoltre aveva il pregio non da poco di essere una forma che ci piaceva moltissimo. Sulle case editrici, ce ne sono tante che avevamo in mente all’epoca in cui stilavamo il progetto e di fatto sono quelle che hanno portato e portano avanti un progetto editoriale e culturale, e anche le stesse su cui ci siamo formati come lettori. Dovessi farti degli esempi ti direi un paio di nomi che hanno rappresentato incoraggiamenti da seguire: minimum fax per il blog, le molte raccolte di racconti pubblicate e la verve giovanile, o 66thand2nd per il fatto di essere tra le più recenti e per la ricerca che fa sulle letterature from elsewhere, dicendola con Rushdie. Anche Sur per l’approccio barricadero al modello distributivo. Ma in generale si annusava che c’era un rinascita – l’ennesima – della short story, che un po’ come il romanzo viene decretata morta periodicamente. C’era un vero e proprio movimento di riviste (Effe, Colla, Cadillac, Verde, Watt, ‘tina e chi più ne ha più ne metta), osservatori (Cattedrale), concorsi (8x8) e l’unica cosa che mancava era una casa editrice per i racconti, dimodoché avessero uno spazio in cui non dovevano sgomitare da perdenti contro il romanzo. Ecco a quello ci abbiamo pensato noi.

Tra i racconti che pubblicate ci sono degli esordi, degli italiani, degli stranieri e dei classici meravigliosi come la raccolta di Virginia Woolf, ma come scegliete i titoli da pubblicare o riproporre?
Abbiamo un macchinario d’epoca sovietica che incrocia i dati statistici di ciò che vuole la gente, quello che offre il mercato e una serie di responsi stile oracolo di Delfi sotto forma di bigliettini dei biscottini della fortuna scritti da Jay McInerney. 
No a parte gli scherzi, non c’è un meccanismo standard e molto si gioca sulle nostre idiosincrasie di lettori. Nel caso di Virginia Woolf si è quasi imposto un principio «di servizio»: quei racconti non erano disponibili da tempo immemore e si imponeva che una casa editrice che si era avocata a sé il nome Racconti pubblicasse le short story della più grande scrittrice del Novecento. Molto più di frequente, io o Emanuele troviamo qualcosa di interessante, l’altro lo legge e se piace anche all’altro e si inscrive in the grand scheme of things, facciamo un’offerta miserrima del tutto in linea con la nostra condizione di casa editrice depauperata e molto spesso quella stessa offerta rather modest viene accettata dagli altrettanto depauperati agenti dei depauperatissimi scrittori.

Il Salone del Libro di Torino è praticamente domani, ci sono stati Tempo di libri e Bookpride, cosa sono le fiere per voi, quali scegliete e come vi preparate?
Quest’anno faremo Salone in uno stand gigante condiviso con quei bei tomi di Black Coffee e Liberaria, i due Book Pride (sotto la nuova e devo dire molto, molto apprezzata direzione di Giorgio Vasta), probabilmente il Pisa Book Festival e PLPL a Roma. Le fiere costituiscono una bella voce di entrata per case editrici della nostra caratura e permettono di farti conoscere e rintracciare da chi magari non ne ha la possibilità, ma hanno spesso il difetto di ricaricare i costi sia sull’utente finale (il malcapitato lettore) sia sull’editore. In questo senso ci piace molto l’approccio di Book Pride, che è a ingresso libero per i visitatori. Per noi si tratta più che altro di occasioni rutilanti e mondane dove l’intake di alcol schizza alle stelle e riusciamo a vedere un mucchio di persone che ci piacciono tutte insieme. Sono il nostro bagno di folla, quello che deve essere il V-Day per Geppe Brillo o lo specchio per Andrea Scanzi, e di solito ne usciamo tumefatti, rintronati, ma anche rinfrancati dal fatto che forse, un giorno, tutto questo avrà senso.

Se per me lettore la libreria è tipo un tempio dove vagare per ore, per un piccolo editore come Racconti cosa vuol dire arrivare a una visibilità in libreria e come si fa?
Un punto di partenza è sicuramente prendere armi e bagagli e andare nelle librerie, a parlare con i librai e i lettori, quei sette che rimangono e a cui tutti noi editori cerchiamo di vendere i libri. Nello scorso anno siamo stati in Sardegna, in Sicilia, in Toscana, in Emilia, in Piemonte, Veneto, Lombardia e qui mi fermo perché inizio a sembrare uno di quei wrestler che itinerano di città in città ogni volta cantando le lodi del posto. Siamo sempre stati accolti benissimo da persone che sanno fare il proprio mestiere e riconosceono chi si impegna nel proprio. Una delle nostre prime tappe, in cui abbiamo tenuto una discussione meravigliosa su Appunti da un bordello turco di fronte a un drappello di suore è stata ad Angri, ospiti della Libreria Don Chisciotte di Cristian Carosella, che si sbatte in un posto difficilissimo e merita tutta la nostra stima. Abbiamo poi una promozione (emmepromo) e una distribuzione (Me.Li) che ci aiutano enormemente nell’essere diffusi su tutto il territorio nazionale, sia nelle librerie di catena che in quelle indipendenti. In generale, fa sempre un bell’effetto vedere il frutto di tante fatiche esposto in vetrina o in uno scaffale ad hoc, e il merito è sempre del libraio che si è sentito coinvolto e si è innamorato, del libro o del progetto.

Secondo voi chi è “lettore di racconti”? Che tipo è? A chi si rivolge Racconti?
Ho appena giocato in un pub di Dublino a Indovina chi, quindi mi sento ispirato. Se è un lui, ha i baffi, una certa ammirazione per il percorso politico di Pippo Civati (ma compra Il Foglio), un’inconfessabile predilezione per i Genesis anni ’80, indossa camicie a quadri e gira per la città con la bicicletta solo per fare incazzare Francesco Piccolo e i tassinari, è su twitter ma non sa come si usa, ha una band indie fuori tempo massimo perché gli hanno detto che non serve saper cantare, ha letto Proust ma non si vergogna di sapere come finisce Tre metri sopra al cielo, scrive i libri che legge. Se è una lei, ha la frangetta, sa tutto di telefonia mobile ma sfoggia un Nokia 3310, conosce la regola del fuorigioco e quella dell’amico, pensa che il sushi is so 2011 e si meraviglia che in giro non si trovi il kimchi, rolla le sigarette che si fuma lui, ha letto tutto il ciclo della Spada di Shannara ma il film è meglio, a differenza del maschio compra i libri che legge. Entrambi vivono al Pigneto in un brutto monolocale. Ah, per capirci, i lettori di Racconti sono proprio due, li conosciamo.

Qual è il rapporto tra un editore e il suo essere lettore? Si riescono a mantenere le letture per semplice piacere o tutto diventa lavoro?
Credo di poter parlare solo a titolo personale in questo caso. Per quanto mi riguarda sì, cerco pervicacemente di ritagliarmi uno spazio casalingo in cui le letture esulino dal lavoro e devo dire che tutto sommato ci riesco abbastanza. Da inizio anno, per puro diletto personale, ho letto molti libri, alcuni dei quali meravigliosi: Un divorzio tardivo di Yehoshua, Il teatro di Sabbath di Roth, Oggetto d’amore di Edna O’ Brien, Le tettine della diciottenne di Keret, Exit West di Mohsin Hamid. Sto ripassando un po’ Lovecraft per scrivere qualcosa a proposito del sentito L’età adulta è un inferno, un Pacchetto dell’Orma a cura di Marco Peano (se non l’avete ancora fatto leggetevi il suo L’invenzione della madre) e sto finendo simultaneamente Eureka Street di McLiam Wilson e Appena ieri di Agnon, ma non li includerei tra i bellissimi di Rete4, ecco. Non vedo l’ora di buttarmi su Il grido di Luciano Funetta e Tabù di Tedoldi prima di ricominciare con la mia full immersion di scrittori israeliani. Ah, di quelli che ho letto per lavoro magari evito di svelare i titoli.

Ci sarà una Metamorfosi in veste Racconti edizioni? Sarebbe da collezione…lo vorrei moltissimo.
Non ti nego che ogni tanto ci riflettiamo ed è una cosa che prima o poi – da malati di collezionismo – proveremo a fare, magari in una traduzione scicchissima, con introduzione di un redivivo Deleuze insufflato di fluido vitale per l’occasione, per un numero speciale nella nostra finora unica collana. Non lo so, anzitutto cerchiamo di arrivare vivi al numero speciale.

Per chiudere…cosa mi suggerite dal vostro catalogo?
Data l’epoca di #MeToo, casi Weinstein, The Handmaid’s Tale e nuovi femminismi, trovo che non ci sia nulla di così attuale come Fantasie di stupro di Margaret Atwood, appena uscito per Racconti nella bellissima traduzione di Gaja Cenciarelli. È un libro di una complessità e bellezza inaudita, dentro ci sono racconti che scardinano la realtà vissuta dalle donne, che è cambiata davvero poco dal 1977 quando sono usciti a oggi. Il raconto eponimo parla di quattro donne a mensa impegnate in una mano di bridge e a capire il perché dell’ossessione delle riviste rosa per le cosiddette «fantasie di stupro». Un paio di ragazze le ammantano di romanticismo, una tace perché forse qualcosa da dire in merito l’avrebbe, la voce narrante invece cerca di smantellare questi sogni erotici ricordando loro cosa significa in effetti essere stuprate e immaginandosi mentre disinnesca eventuali assalitori col solo ausilio delle parole. Come ha detto Michela Murgia parlando di questo racconto, se esistono le fantasie è proprio perché ci sono le paure. Ecco, questa short story, in poche pagine dice moltissimo e sottende ancora di più su i rapporti di potere che intercorrono tra uomini e donne. C’è una bella frase di Margaret Atwood che funziona bene per descrivere la sua posizione e anche il finale di questo racconto (no spoiler): «Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro; le donne hanno paura che gli uomini le uccidano».

Grazie Stefano.

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