Morte di un uomo felice, dalle parole di Giorgio Fontana

 
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  Giorgio Fontana ha vinto il premio Campiello con Morte di un uomo felice, e intervistandolo per questo mio tè tostato, dopo la lettura del libro con il gruppo di @TwoReaders, avrei voluto chiedergli "ma quanto sei stato felice?". Poi ho pensato che fosse una domanda stupida e non ho chiesto nulla di quel risultato. La preparazione, i personaggi, la religiosità, i sentimenti, la paternità, l'ingannevolezza di un titolo e le tante felicità possibili, qui con Giorgio Fontana. Mille grazie.

“Morte di un uomo felice” è un libro essenzialmente legato al periodo storico di ambientazione, in conclusione citi le tue fonti e le ricerche che hai fatto, cosa ti ha spinto a scrivere di un momento così complesso e doloroso?
Nient'altro se non il personaggio di Giacomo Colnaghi, che avevo già sviluppato in parte nel romanzo precedente. Non sono mai stato uno scrittore che si appassiona di periodi storici; mi piacciono le singole storie, i singoli individui. E Colnaghi mi appariva davvero molto promettente da un punto di vista narrativo — e umano.

La storiografia appare centrale, non solo racconti la storia recente, ma anche quella fondante, il partigianesimo, accostando prudentemente terroristi e partigiani, fino al grido di Colnaghi “Voi non siete partigiani!”, un parallelismo e un’associazione delicati seppure spesso citati dagli storici contemporanei, due lotte, due modi di vivere e morire, due cause, sembra emergere una riflessione sul rapporto tra mezzo e fine, è corretto?
Il rapporto fra mezzo e fine è una mia ossessione personale, che credo di avere mutuato in parte dal mio interesse per il pensiero anarchico. Per quanto complicato sia, non dobbiamo dimenticare che è il fine a giustificare il mezzo, e non viceversa; l'idea che tutto sia lecito di fronte a uno scopo più alto conduce rapidamente all'aberrazione. Come diceva Gandhi, non si può attendere un roseto se piantiamo gramigna. Quanto al resto, Colnaghi alla fine di quel dialogo sbotta — ed è l'unico momento in cui lo fa — perché sente usurpata la memoria paterna da parte dei terroristi. E ancor più, di sottofondo, è ossessionato dal fatto che di questo non può parlare con suo padre. Come vedete, tutto viene calato nella dimensione privata: e in effetti con Morte di un uomo felice volevo scrivere un romanzo privato, un romanzo da camera, su anni che invece sono estremamente "pubblici".

L’atmosfera del Palazzo di Giustizia, i ruoli del pool investigativo e dei magistrati, anche per questo aspetto hai dovuto documentarti?
Sì, ho dovuto documentarmi parecchio su tutto. Ma è parte del lavoro quotidiano di uno scrittore: poi io sono parecchio pignolo, quindi... L'unico problema è stato non esagerare con le ricerche — cioè fare in modo che l'ansia di esattezza non spegnesse l'inventiva. Altrimenti avrei finito per scrivere un saggio, cosa che proprio non volevo fare.

Nel libro ha molto spazio la religiosità di Colnaghi e Paola, una delle lettrici del gruppo, vorrebbe chiederti se tu sei credente, se questa lucidità del rapporto tra uomo e Dio derivi dalla tua fede.
No, sono ateo. Ho però avuto un'infanzia e adolescenza cattolica: i ricordi hanno aiutato. E senz'altro dal punto di vista narrativo il conflitto religioso è molto interessante; è uno degli aspetti cruciali del personaggio Colnaghi.

Paola è inoltre rimasta colpita dall’antiretorica con cui tratti fatti dolorosi chiede se anche tu, come Colnaghi, ritieni che la violenza porti altra violenza e in quale modo sia possibile conciliare giustizia ed equità.
Ah, una domanda a cui non so davvero rispondere! È un tema enorme, non posso certo svilupparlo in poche righe... Diciamo solo che è giusto e sacrosanto ribellarsi di fronte a un'ingiustizia, ma senza perdere di vista la questione mezzi/fini (come dicevo sopra) e senza farsi catturare dalla logica della sopraffazione reciproca.

Passiamo ai personaggi, Colnaghi è protagonista nei pensieri e nelle azioni, le altre figure ruotano intorno a lui contribuendo a definirlo, i colleghi, l’amico libraio, vittime e brigatisti sono veicoli per arrivare a conoscerne l’anima e lo toccano intimamente, solo la famiglia, sua moglie e i figli sembrano lontani, quasi tenuti a distanza, come mai?
Già. Una mia amica mi ha fatto notare che Colnaghi coi terroristi ci parla e si sforza di capirne le ragioni, ma ad esempio con i cugini con cui ha litigato si tiene a distanza e manco entra in casa loro... Una bella contraddizione, per un uomo per cui "ascoltare un uomo è cominciare a salvarlo"! Ma è proprio questo il punto. Volevo che Colnaghi vivesse in prima persona queste sue contraddizioni: il suo sentirsi un padre non all'altezza, un marito assente, un uomo che mette davanti il proprio lavoro rispetto alla famiglia e per questo si sente molto in colpa...

È corretto dire che esce da questa struttura quasi di sostegno soltanto il padre, l’altra vita che viene raccontata, l’altro protagonista, l’altro uomo di cui si intravede l’intimità dei pensieri?
Sì, credo di sì. A un certo punto Giacomo sembra pensare che l'unica persona che abbia mai amato davvero è proprio questo padre assente.

Il tuo libro è diviso tra la dimensione personale delle riflessioni di Colnaghi e i dialoghi con il mondo esterno,  particolarmente incisivo quello col brigatista, una scena che appare implausibile, quasi sognata, e che culmina con il moto di rabbia con cui il giudice allontana il ricordo del padre partigiano dalla violenza dei terroristi e quello  a cena con il collega in cui si coinvolgono le difficoltà dell’uomo nella professionalità del magistrato, in cui dubbi e umanità si scontrano e si poi si conciliano con il ruolo. Come è nata l’ideazione e poi la stesura di questi passaggi?
Penso sia stata la parte più difficile da scrivere dell'intero romanzo. Ci sono tornato sopra una ventina di volte, e ancora adesso non sono pienamente soddisfatto del risultato: ma più di così non potevo fare, credo che qui giochino i miei limiti oggettivi come scrittore. Sarebbe stato molto comodo evitare questa scena, o mettere in scena un dialogo "risolutivo"... Io invece volevo che la conversazione fosse aporetica, che portasse la lacerazione all'estremo.

Colnaghi è quasi rivoluzionario nel suo lavoro, incontra in modo personale le famiglie delle vittime, crea una squadra sfidando il Procuratore, si trattiene a cercare di capire i ragazzi diventati terroristi, interpreta la realtà con la sua fede e con il buonsenso, vive la magistratura in un equilibrio tra legge e comprensione, lotta contro l’errore e accetta l’eccezione, è l’immagine di un magistrato illuminato, hai avuto dei modelli?
Sicuramente Emilio Alessandrini e Guido Galli, che cito nella nota finale: magistrati democratici, garantisti, di altissimo profilo morale — ed entrambi vittime di Prima linea. Ma benché questi modelli siano presenti, è bene ribadire che Colnaghi è un personaggio del tutto finzionale.

Ultima domanda, dal titolo alla fine mi sono chiesta chi fosse l’uomo felice, leggendo ho riconosciuto la felicità in pochi attimi e per lo più legati a Ernesto Colnaghi, alla fine ho sentito il peso del tempo  che non basta, non la felicità, forse non ho ben interpretato il sentimento?
In effetti c'è un'ambiguità nel titolo: l'uomo felice è Giacomo o Ernesto? O entrambi?... L'autore pensa che lo siano entrambi, ma chissà — a volte nemmeno io concordo con l'autore! Di sicuro la felicità di cui si parla può sembrare un po' strana, forse nemmeno adeguata all'idea che molti di noi ne hanno. Ma per me è una felicità reale. Fatta di piccole cose, fiera e testarda nonostante i dubbi e le macerazioni interiori, innamorata della vita nonostante tutto il dolore possibile.

Commenti

  1. Ho avuto modo di assistere alla presentazione del romanzo, quando non lo avevo ancora terminato, e mi è piaciuto molto.

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